Sono la più piccola di quattro sorelle, ho trascorso la mia infanzia a Capaccio Paestum o Poseidonia come la chiama mio padre, incurante del fatto che sono passati più di duemila anni dai suoi antichi splendori.
Archeologo instancabile, papà mi ha trasmesso un attaccamento particolare a questa città, che affonda le sue radici nel mondo greco a cui, a suo giudizio, dobbiamo quello che siamo. In effetti, fin da piccola, alla mia Paestum sentivo di appartenere profondamente. Lo avvertivo nei pomeriggi assolati cercando l’ombra tra le colonne dei templi, mentre mio padre riportava in vita, con i suoi appassionati racconti, personaggi e storie di un tempo che avevano sempre qualcosa da insegnare.
Circondata dall’affetto di parenti e amici, passavo ore a giocare a pallavolo nel campo della Parrocchia e smettevo solo quando non mi reggevano più le ginocchia, lasciandomi cadere sulla terra polverosa grondante di sudore e soddisfazione. Ricordo le domeniche a guardare e riguardare vecchi film immaginando quello che sul grande telo dell’oratorio appariva troppo sfocato, sere di corse in bicicletta sfrecciando controvento, storie di quartiere raccontate appoggiati ai muri lungo una strada che in fondo era la mia seconda casa. E ricordo il mare così limpido e trasparente che mi ci potevo specchiare e vedere il riflesso puro di una ragazzina con i capelli al vento e il cuore pieno di desideri da realizzare.
Se mio padre era perso in un glorioso passato, mia madre era tutta proiettata al futuro. Insegnava inglese al liceo linguistico di Salerno e diceva spesso che Paestum era una città addormentata e che per le persone del Sud l’unica possibilità di stare al passo con i tempi era guardare verso Nord e non avere paura di cambiare.
A me piaceva vivere un po’ nel mezzo, in un presente forse monotono ma rassicurante, affascinata dalle storie antiche e determinata a costruire il mio futuro come volevo io. Ancora non sapevo che presto avrei dovuto lasciare la mia città, piena di colori e contrasti, di diseguaglianze e incoerenza, ma anche di cuore e di sogni.
Ricordo come fosse ora il giorno in cui l’amore tra i miei genitori finì e con mamma e mia sorella di un anno più grande di me volammo a Londra per una nuova vita. Avevo solo quindici anni e fu un salto nel vuoto.
Quando atterrai e riaprì gli occhi mi trovai in una fredda città che non assomigliava affatto alla mia Paestum. Intuii subito che non mi sarei mai abituata. Mi avevano detto che a Londra avrei avuto importanti opportunità per il mio futuro in una delle più moderne città del mondo. Avrei potuto studiare, trovare un lavoro gratificante e avere la vita che sognavo. In realtà l’unica cosa che avvertivo chiaramente era la mancanza di mio padre e delle mie sorelle. Ripensavo con nostalgia alle nostre lunghe serate in veranda sul dondolo a parlare delle ultime scoperte di nostro padre, le storie ricche di fascino e mistero che ci tenevano sveglie fino a notte fonda. Il mio cuore era diviso e una metà era rimasta in Italia, troppo lontana da me.
Londra in realtà è stupenda con i suoi giardini, le casette bianche, l’arte che la anima. Multietnica, variegata, non annoia. Non mi sono sentita una straniera mai.
Eppure era chiaro, almeno a me lo era, che quello non sarebbe stato il mio posto nel mondo.
Mia sorella trovò presto degli amici e anche l’amore. Io invece tenevo sempre un certo distacco dalle persone, avevo imparato a sorridere, evitando così domande indiscrete e intrusioni nella mia interiorità.
Nelle sere di luna, quando il vento del nord mi gelava fin dentro le ossa, resistevo camminando all’aperto finché potevo, come se quel vento, con la sua forza, potesse riportarmi indietro nella nostra vecchia casa gialla dove non c’era nulla, eppure c’era tutto l’affetto che potevo desiderare. Cullata dal lento movimento del dondolo, avvolta dalle risate delle mie sorelle, provavo una sensazione di pace profonda.
Mia madre aveva affittato una piccola casa a due piani nella periferia di Londra, la terza di una fila di casette bianche tutte uguali. Dalle finestre quadrettate si vedeva un paesaggio a mosaico e mi piaceva soffermarmi a guardare i particolari che apparivano da ciascun rettangolo come piccoli quadretti di vita che sfuggono alla visione d’insieme.
Restavo a lungo ad osservare uno scoiattolo fulvo che si arrampicava agilmente sui rami del pesco sicuro di non essere visto o Miss Kathy dai lunghi capelli sciolti che si chinava sul suo bimbo per prenderlo in braccio, guardavo Mr. Luke che portava a spasso il suo cane fischiettando senza preoccuparsi del temporale imminente, scrutavo i Jones che passeggiavano tenendosi per mano come due ragazzini nonostante avessero superato i novanta.
Pensavo che la mia vita era proprio così, fatta di tanti pezzi, di luoghi, di persone, di sentimenti affollati nel mio cuore, un puzzle composto da tante tessere che però non combaciavano.
Sentivo papà al telefono una volta alla settimana, avevamo il nostro appuntamento il venerdì sera alle nove esatte, l’ora in cui, dopo essere rientrato dal lavoro, si sdraiava sul divano e riordinava nella mente i risultati delle sue ricerche. Diceva che l’importante era cercare instancabilmente, seguire le tracce, vagliare tutte le possibilità: “Potrà anche succedere che non troverai quello che cercavi, ma una ricerca appassionata è un piccolo passo verso la conoscenza e apre strade che altri potranno continuare a percorrere”.
Ero impaziente di sapere se aveva trovato qualcosa, ma la risposta era quasi sempre la stessa: “Ci sono vicino!” E la sua voce era carica di emozione. Io morivo dalla voglia di vedere un pezzetto di storia tra le sue mani segnate dal lavoro e dal tempo, mentre lui pensava già al prossimo scavo.
A lungo ho creduto che avrei seguito il suo esempio e sarei diventata un’archeologa, in realtà la mia ricerca mi avrebbe portata altrove.
Terminati gli studi cominciai a lavorare in un bar, parlavo bene l’inglese anche se l’accento italiano, o meglio cilentano, qualche volta mi tradiva. Come quella sera in cui la pioggia scendeva fitta e dovetti sparecchiare in fretta i tavoli all’aperto. Avevo la maglietta fradicia e continuavo a guardarmi temendo che diventasse trasparente. Il locale era piuttosto affollato e mi affrettavo a sistemare i clienti che erano entrati per la pioggia.
Quando mi voltai verso il bancone mi accorsi che un uomo era rimasto in piedi, diedi un rapido sguardo alla sala e capii che non sarei riuscita a farlo accomodare. “Mi dispiace signore, i posti a sedere sono terminati” sussurrai. “Resto volentieri qui” rispose lui con un tranquillo sorriso. Lo guardai meravigliata per la sua calma, la gente del posto era sempre così di corsa e parecchio esigente. Sembrava che quell’uomo venisse da un altro mondo. “Non sei di qui, vero?” Mi disse. “Si capisce dall’accento?” Chiesi vergognandomi. Lui annuì e i suoi occhi s’illuminarono di una luce limpida, quasi familiare. Notai sul suo braccio un tatuaggio che raffigurava l’Australia e passandogli accanto mi parve di sentire profumo di mare.
Che Nicholas fosse un uomo speciale fu facile scoprirlo, perché è una persona autentica, trasparente e mi sono subito sentita a mio agio con lui, nonostante avesse parecchi anni più di me. Non mi fece promesse, non mi rassicurò sul futuro che ci attendeva, non mi raccontò favole romantiche: mi portò con lui!
Avevo da poco compiuto vent’anni e una sera d’estate rumorosa di cicale preparai la valigia più leggera della mia vita, più che vestiti ci avevo messo dentro il mio bagaglio di sogni e stranezze, di esperienze e sconfitte, di affetti e ricordi. Stringendo la mano all’uomo della mia vita ero pronta ad attraversare gli oceani per la mia nuova inimmaginabile destinazione: l’Australia!
Nicholas gestisce un resort sull’oceano, io lavoro lì da quasi cinque anni e in questo posto così solare e pieno di energia positiva sono rinata. La natura qui è grandiosa e perfetta in ogni sua forma, essere ai confini del mondo mi affascina e mi sorprende ogni giorno. La mattina mi sveglio prima dell’alba e scendo a camminare sulla spiaggia: l’oceano è incredibile, ha colori così vivi e cangianti e suoni così intensi, è immenso e vitale, conosce e sa tenere i segreti. Mi piace restare seduta sulla riva come facevo da bambina, facendo scivolare i granelli di sabbia tra le dita, con il vento che mi arriccia i capelli. In quei momenti sento scorrere dentro di me pensieri ed emozioni, entro in contatto con le mie profondità e, nonostante l’immensa distanza, mi sento vicina ai miei affetti più cari.
La gente del posto mi ha accolta subito con calore e spontaneità. Abbiamo comprato una nuova casa proprio sulla spiaggia e la stiamo sistemando come ci piace. Non è molto grande, ma abbiamo una stanza per gli ospiti, così mia madre e le mie sorelle possono venire a trovarci. Ho messo a posto le tessere del mio puzzle, ho curato le ferite, ricucito gli strappi e aggiunto il pezzo che mi mancava: l’amore.
Trascorro le giornate al resort, mi occupo degli ospiti e delle sale. Nicholas mi ha dato carta bianca e ho potuto curare personalmente l’arredamento e l’allestimento di ogni stanza. Dice che ci ho portato calore e gusto e quel tocco femminile. Adoro accogliere le persone che vengono in vacanza o per lavoro e donare loro piccole attenzioni che rendono indimenticabile il loro soggiorno. Ascolto le storie che mi raccontano e trovo bellissimo che in questo paradiso tradizioni e culture diverse possano danzare insieme in perfetta armonia.
Dopo intense giornate di lavoro, Nicholas ed io ci accoccoliamo sul dondolo in veranda. Tra i riflessi del tramonto ripenso alla mia città addormentata, così bella e unica, a tutto quello che mi ha dato e che mi porto dentro.
Nel buio le stelle scintillano candide, emozionate e tremanti come gigli di mare, le nuvole corrono veloci in altri cieli e il rumore dell’oceano sembra ritmato sui battiti dei nostri cuori. Amo questi momenti in cui il tempo si ferma e mi sento di nuovo a casa.
Penso a mio padre che mi guarda da lassù e lo vedo che mi sorride, forse perché sa che dall’altra parte del mondo ho trovato quello che in fondo cercavo: la mia felicità!
Storia vera pubblicata sul n. 50 di Confidenze - dicembre 2019